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Lombardi e Inzaghi
Faceva parte della nidiata dei giovani della Lazio cresciuti e lanciati da Simone Inzaghi, ha trovato il gol all’esordio in Serie A con la maglia biancoceleste. Poi, nel momento di farsi le ossa, gli infortuni non lo hanno mai abbandonato fino al calvario degli ultimi anni e alla decisione di smettere. Cristiano Lombardi, oggi ancora nella famiglia Lazio nelle viste di assistente allenatore dell’Under 18 di mister Punzi, si è raccontato sulle colonne della Gazzetta della Sport. Queste le sue parole.
Sedici partite in 4 anni, poi l’addio. Quanto è stato difficile?
“Non posso dire di aver sofferto di depressione, ma lasciare il calcio è stata dura, molto dura. Diciamo che l’ho sfiorata, ecco. Ci sono stati mesi in cui ho pensato di diventare un imprenditore, andare a New York e cambiare vita insieme alla mia famiglia, poi ho capito che senza calcio non so stare. Ma quando accendo la tv e vedo alcuni compagni faccio fatica a guardare. Non sono invidioso, ci mancherebbe, ma forse avrei potuto giocare con loro”.
Quando è iniziato il calvario?
“Il 17 febbraio 2020, Chievo-Salernitana in Serie B. Rimediai una lesione al bicipite femorale. Il primo infortunio serio della mia carriera, prima della pandemia. L’inizio di un incubo”.
Il Covid non l’ha aiutata.
"Esatto. Dall’annata 2020-21 è stata una discesa. Nell’anno della promozione della Salernitana giocai solo tre partite, senza gli infortuni sarei rimasto al 100% anche in Serie A. A gennaio 2020 mi volevano diverse squadre, ricordo che durante una vacanza alle Maldive dovevo scegliere se andare in A o restare. Scelsi di rimanere per via del progetto importante. Ma sono stato sfortunato”.
Quando ha scelto di smettere?
“Dopo l’ultima annata a Trieste. Un caos. Passai da cento a zero nel giro di sei mesi. Con tutto il rispetto, ma non mi sono mai sentito un giocatore da squadra medio-bassa di Serie C. Ho preso del tempo, ho valutato le opzioni e alla fine ho capito: ricomincio”.
La fortuna l’ha prima accarezzata e poi stritolata.
“Si può dire così. Basta guardare il mio debutto in Serie A…”.
Bergamo, 21 agosto 2016, Atalanta-Lazio 3-4.
“Fu incredibile. Felipe Anderson era all’Olimpiade, Keita disertò l’allenamento perché voleva andar via e non fu convocato, così Inzaghi, l’allenatore a cui devo tutto, mi provò dall’inizio durante la rifinitura. Ricordo la traversa di Paloschi nel primo tempo, i gol di Hoedt e Immobile e le lacrime di mio padre in tribuna”.
Un gol dedicato a suo fratello, scomparso anni prima.
“Un momento indimenticabile, lì la mia vita è cambiata”.
Grazie a Inzaghi. Un aneddoto?
“Lo conosco da più di dieci anni. Non ho mai sentito nessuno urlare ‘Lomba’ come lui da bordocampo. Iniziava a urlare il mio cognome già al primo minuto. Nemmeno mio padre ha mai gridato così forte e per così tante volte. Scherzi a parte, è stato come un padre. Dopo quel gol in Atalanta-Lazio non giocai dall’inizio nella gara successiva soltanto perché sfidammo la Juve. Aveva bisogno di copertura”.
Nel 2010-11 è stato il suo primo capocannoniere.
“Sono stato il suo Immobile o il suo Lautaro, e spero che adesso riesca a far diventare un bomber da 25 gol anche Thuram. Ricordo la finale del campionato Allievi Regionali contro l’Atletico Roma a Ciampino, sotto gli occhi di Lotito. Vincemmo 5-0, segnai tre reti. Festeggiamo per giorni. Con le punte ci ha sempre saputo fare”.
Qual è il suo segreto?
“Il rapporto umano. La fiducia incondizionata. Quel suo modo elegante di spronarti a fare meglio senza fartelo pesare. Una volta mi prese da parte e mi disse che se non avessi segnato mi avrebbe mandato in panchina. Venivo da tre partite senza gol. E poi le scaramanzie, le partitelle infinite, quelle cene tutti insieme, l'adrenalina. Per lui un derby degli Allievi valeva già la Serie A”.
Quante strigliate vi ha fatto negli spogliatoi?
“Una su tutte: Roma-Lazio 3-3, il suo primo derby credo. All’intervallo eravamo sotto di due gol, lui si palesò da noi arrabbiato come non mai. Si sfilò la giacca, la strappò e la calpestò, salvo poi uscire senza dirci nulla. Ci trasformò. E alla fine riuscimmo a pareggiare. Avevamo 15 anni, ce lo ricordiamo ancora”.
La morte di Mirko Fersini vi unì ancora di più, poi.
“Ancora oggi fatico a parlarne. Mirko era uno di noi. Ricordo i giorni fuori la sua stanza d’ospedale. Inzaghi e lo staff furono bravi a tenerci stretti. Ancora oggi rimpiango alcuni aspetti del rapporto con lui”.
Ad esempio?
“Sono stato l’Immobile del suo settore giovanile. Mi ha sempre difeso e supportato. Mi ha tenuto un anno in rosa dopo un ottimo ritiro. A quasi trent’anni penso che avrei dovuto parlare con lui dei vari problemi, chiedergli qualche consiglio in più. Dopo le partite ci portava sempre a cena. Insieme abbiamo vinto Coppa Italia e Supercoppa Primavera. Sono rimasto legato”.
Il più forte mai visto nelle giovanili?
“Keita Balde, senza dubbio. A 16 anni era una statua di marmo. Aveva il talento da top club europeo, ma si è cullato troppo su quell’aspetto”.
Nel 2016-17 lei giocò 19 partite, Luis Alberto solo 10. E a gennaio pensò anche di smettere. Ci pensa mai?
“Il calcio è questo. Lui all’inizio faceva l’esterno, ma giocavo al suo posto. Effettivamente è assurdo per come sono andate le cose. A volte penso che se fossi stato al posto giusto nel momento giusto avrei potuto fare molto di più. Sono felice, ho la mia famiglia e cerco di fare l’allenatore, ma la malinconia c’è. E non se ne andrà”.
Come mai ha scelto di fare l’allenatore e non il d.s. o l’osservatore?
“Vorrei provare a bruciare le tappe. In carriera ho fatto qualche errore, ma spero di insegnare qualcosa ai giocatori. Ci tengo a ringraziare la Lazio. Non mi hanno mai mollato”.
Cosa dice ai ragazzi che segue?
“Di migliorare. Di non mollare mai o sentirsi arrivati. Prima dell’ultima partita ho fatto un esempio di mio ex compagno, Emanuele Cicerelli, che dopo una lunga gavetta ha già segnato 12 gol in quattro mesi con la Ternana in C. Le qualità c’erano, ma ha lavorato su se stesso. Spero mi seguano come io seguivo Inzaghi”.
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