Nell’estate del 1996 alla Sampdoria prima, tre anni più alla Lazio poi. C’è il segno di Sven-Goran Eriksson sulle prime fasi della carriera di Juan Sebastian Veron. E proprio l’argentino ricorda il tecnico svedese sulle colonne della Gazzetta dello Sport. Queste le sue parole.
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Lazio, Veron: “Pochi uomini come Eriksson. Difficile sopportarne l’assenza”
Che cosa ricorda del primo incontro?
“Tutto. Io non ero nessuno, soltanto un giovane calciatore venuto dall’Argentina per cercare di sfondare nel calcio italiano. Mentre lui, per me, era il Signor Eriksson. Eppure, quando gli strinsi la mano, non avvertii distanza, mi fece sentire al suo stesso livello”.
Eriksson la volle a tutti i costi nonostante non l’avesse mai vista giocare dal vivo.
“Proprio così. Il mio procuratore gli aveva fatto avere alcune videocassette e su quelle si basò per chiedere ai dirigenti della Samp di acquistarmi. Si fidò delle sue prime impressioni”.
E lei ripagò quella fiducia?
“Mi auguro di sì, in quella stagione e in quelle che trascorsi con lui alla Lazio con la vittoria dello scudetto. Ma Eriksson fu fondamentale per farmi capire il nuovo mondo nel quale ero sbarcato. A vevo ventuno anni, non ero mai uscito dall’Argentina, avevo bisogno di una guida. Lui, per me, fu una guida. Sia sul campo sia fuori. I suoi consigli non erano mai ordini, aveva un profondo senso del rispetto. Quando gli parlavi, capivi subito che ti stava ascoltando e dunque, in quel momento, ti sentivi al centro dei suoi pensieri”.
Com’era l’Eriksson allenatore?
“Prima cosa da dire: non era invadente. Nel senso che sapeva che la fortuna delle squadre sono i calciatori e lui aveva l’umiltà di mettersi a loro disposizione. Più che delle tattiche e degli schemi, che comunque conosceva alla perfezione, Eriksson si preoccupava di creare un gruppo. E quando parlo di gruppo intendo che tra di noi ci doveva essere amicizia, intesa, comprensione. Questo era il suo obiettivo, e dovrebbe essere l’obiettivo di ogni allenatore”.
Lei ne ha avuti tanti di tecnici. Dove colloca Eriksson in un’ipotetica classifica di bravura?
“Al primo posto, e l’ho già detto diversi anni fa. Per me lui è stato il migliore, quello che mi ha accolto, quello che mi ha capito, quello che mi ha migliorato, quello che mi ha fatto diventare un giocatore importante. E ricordatevi che io sono stato allenato anche da un fenomeno della panchina come Sir Alex Ferguson al Manchester United. Ma Eriksson aveva qualcosa in più: l’aspetto umano”.
Di lei Eriksson disse che era timido, parlava poco nello spogliatoio, ma in campo era un vero allenatore.
“Lo ha detto anche a me, una volta, quando avevo smesso di giocare, e ci siamo messi tutt’e due a ridere. Io non sono un chiacchierone, ma sono uno che pensa soprattutto al bene del collettivo. E nelle squadre dove ho giocato questo è sempre stato il traguardo che volevo raggiungere: il gioco di tutti è importante, non il gioco di un singolo. Eriksson mi ha insegnato questa lezione e io me la sono sempre portata dietro in tutta la mia carriera”.
Nell’estate del 1999 lo raggiunse alla Lazio. E vinceste lo scudetto.
“Avevo appena conquistato la Coppa Italia e la Coppa Uefa con il Parma, ma sapevo che Eriksson mi voleva già da un paio d’anni e feci in modo che il trasferimento si realizzasse. Lo scudetto con la Lazio è stata un’impresa indimenticabile. E gran parte del merito, a parte la bravura dei giocatori, fu di Eriksson che seppe sempre tenere in equilibrio tutto l’ambiente, sempre facile all’esaltazione. Dico una sola cosa che spiega tutto: di allenatori come lui ne nascono pochi, e di uomini ancora meno. È per questo che sarà difficile sopportarne l’assenza”.
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