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Oddi: “D’Amico un eterno giovane. Era il più importante di tutti, era la Lazio”

Giancarlo Oddi
Le parole ed il ricordo di Giancarlo Oddi per la scomparsa dell'amico ed ex compagno di squadra Vincenzo D'Amico, venuto a mancare a 68 anni
redazionecittaceleste

Tutto il popolo biancoceleste piange la scomparsa di Vincenzo D'Amico, che si è spento ieri all'età di 68 anni. Un simbolo, capitano e trascinatore di una Lazio che gli è entrata dentro in modo diverso rispetto agli altri. "Lui stesso diceva che da bambino era tifoso juventino, completamente pazzo di Omar Sivori. Poi, citando Felice Pulici, la Lazio l'ha scelto e gli è entrata dentro" - racconta l'amico e l'ex compagno di squadra Giancarlo Oddi in una lunga intervista concessa alle colonne de Il Messaggero. 

Un altro di quella "maledetta" banda del '74 che se ne va.

"Era il piccoletto dei nostri, quasi una mascotte o un fratello minore. Purtroppo ha sofferto molto, non se lo meritava. Ho passato gli ultimi due giorni al Gemelli, gli sono stato vicino".

Aveva confessato il tumore dopo la scomparsa di Pino Wilson.

"Vincenzo aveva un grande cuore, era rimasto scosso, ma era malato da diverso tempo. Non diceva nulla solo perché non voleva essere compatito. Dava coraggio agli altri come sempre".

Allora, come ha affrontato davvero la malattia?

"Sdrammatizzando tutto. Da Madeira mi faceva battute al telefono persino sul cancro, era un giocherellone nato. È morto giovane, ma era già un giovane eterno".

Un’altra bandiera ammainata di quella squadra dello scudetto, di cui avevate festeggiato i 40 anni nel 2014 all’Olimpico con 'Di padre in figlio'.

"Quel giorno era felicissimo. Mi ricordo che lo sfottevano perché aveva messo su un po’ di chili e lui rispondeva: “Perché ho smesso di fumare”. Ma io me lo ricordo a tavola davanti a qualunque piatto...".

Era talmente genuino da far passare in secondo piano il suo genio? 

"Impossibile, era fortissimo, un fenomeno, aveva una tecnica e una classe che non aveva nessun altro di noi. Poi la sua carriera lo ha dimostrato".

Come mai non fece mai una presenza con Bearzot in Nazionale?

"Sarebbe dovuto essere uno dei capisaldi in azzurro. Invece, la sua simpatia a qualcuno andava di traverso, anche se lui era bravo, buono e non voleva dare fastidio a nessuno, ma soltanto portare allegria ed entusiasmo in un gruppo".

Eppure Chinaglia gli rifilò un calcione per un sorriso di troppo.

"Sì, ma Giorgio era così con tutti, però gli voleva un gran bene".

Negli anni a venire Vincenzino diventò il capitano.

"No, diventò la Lazio. Era il più importante di tutti, salvò il club da diverse situazioni, impossibile dimenticare la tripletta in quel Lazio-Varese 3-2 che evitò la serie C, nel 1982".

Insomma, tutto il calcio perde un altro mito.

"Forse esagero, ma se fosse stato meno mattacchione e più ambizioso, avrebbe potuto persino vincere il Pallone d’oro. Ma lui preferiva godersi la vita oltre il calcio, giocare con tutto, alla fine anche con la morte".