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Macheda: “Sogno di chiudere la mia carriera alla Lazio. Al Manchester…”

Edoardo Benedetti Redattore 
Intervenuto ai microfoni della Gazzetta dello Sport l'ex attaccante del vivaio biancoceleste, Federico Macheda, ha parlato della sua carriera

Intervenuto ai microfoni della Gazzetta dello Sport l'ex attaccante del vivaio biancoceleste, Federico Macheda, ha parlato della sua carriera e del sogno di chiuderla con la maglia della Lazio, partendo però dall'iconico gol segnato all'esordio con il Manchester United.

Dissi ai miei amici che avrei fatto esplodere lo stadio. Il video della scivolata sul prato popola ancora i social, ma la mia foto preferita è un’altra”.

Quale?

Due giorni dopo Ferguson mi convocò anche per United-Porto, andata dei quarti di finale Champions. Appena mi alzai per il riscaldamento lo stadio iniziò a cantare il mio nome. Lì c’è una foto in cui rido: mi vergognavo”.

In che senso si vergognava?

Io, un ragazzo di Ponte di Nona, quartiere difficile, famiglia umile, a Old Trafford. Coi tifosi che cantavano 'Macheda, Macheda'. Pensai: ‘Ma è tutto vero?’".

Lo era. Ricorda il viaggio in aereo da Roma nel 2007?

Un cocktail di emozioni. Felicità, ma anche paura. Arrivai ai primi di luglio con un diluvio universale. Mi affidarono a una famiglia. Ero da solo, senza computer, senza internet. Si cenava alle sei con dei pasti che… vabbé, ha capito. Quando la porta si chiuse chiamai David Williams, lo scout che mi aveva scoperto, gli dissi che sarei tornato a casa. Lui mi portò al centro commerciale e parlammo un po’. Il giorno dopo varcai i cancelli del centro sportivo. Ero in un altro pianeta. E ovviamente rimasi”.

Quand’è che Williams si accorse di lei?

La Lazio mi aveva messo fuori rosa per dei problemi legati al rinnovo. David si piazzò a bordo campo e rimase lì per parecchi giorni, poi si presentò. Mi regalò una spilla dello United e parlò con mio padre. All’inizio non avevo intenzione di lasciare Roma”.

Come la convinse?

Col jolly: Alex Ferguson. I miei lo incontrarono in albergo prima della gara d’andata di Champions contro la Roma. Io ero fuori con la Nazionale. Si presentò con la maglia numero 9 dello United con scritto “Macheda”. Ricordo la telefonata di mio padre: “Federì, vedi che la cosa è seria”. Rifiutare non era possibile. Un mese prima della partenza la Lazio scelse di fare all in con un'altra offerta, ma dissi di no. Non ho mai visto Walter Sabatini così indemoniato”.

Com’è stata l’adolescenza a Manchester?

Indimenticabile. C’erano anche Davide Petrucci, Gollini e Pogba. Gli abbiamo insegnato un po’ di dialetto romano, a lui piaceva: imparò a dire ‘sghi'. E andava pazzo per la frittata con le patate di mia madre. Un altro fenomeno era Ravel Morrison”.

Torniamo a quel pomeriggio d'aprile. Cos’è che non sappiamo di quel gol all’Aston Villa?

Sapevo che sarei stato convocato, ma non dissi nulla a nessuno, neanche in famiglia. Qualche giorno prima Ferguson venne a vedermi con le riserve. Ero insieme a Petrucci, appena sceso dalla bicicletta. “Se stai bene ti porto coi grandi”. Segnai tre gol”.

Si immaginava a vita nel Manchester?

A vita no, ma ero convinto di essere il futuro”.

E se fosse partito in modo più soft? Magari senza gol. Ci pensa mai?

Segnerei altre tremila volte. Io sono così: o inizio alla grande o non inizio proprio. I big tra l'altro mi avevano preso tutti in simpatia. Con Ronaldo parlavo di ragazze sul pullman, stavo bene. Il problema è stato il dopo”.

Andare alla Samp nel 2011 mi ha ucciso come calciatore”, ha detto qualche anno fa.

Non ho avuto la serenità di cui avevo bisogno. Avrei dovuto giocare con Pazzini, ma lasciò anche lui. Mi ritrovai a sostenere l’attacco a 19 anni. Ferguson mi consigliò di restare, ma volevo giocare”.

Il punto più basso qual è stato?

Quando rescissi il contratto col Cardiff. Mentalmente ero morto, soprattutto dopo un’operazione alla schiena e sei mesi fermo. Mi ritrovai senza offerte, poi nel 2016 firmai con il Novara in Serie B”.

La pace l’ha trovata in Grecia però, come mai?

Una seconda casa. Al Panathinaikos ho segnato 40 gol in 4 anni, la mia famiglia vive ad Atene, mi trasmette pace e tranquillità. La verità è che mi sono affidato a un mental coach e ho iniziato a lavorare su me stesso. Io ho un carattere forte, non ho mai sofferto di depressione, ma un altro avrebbe mollato”.

Cosa risponde a chi oggi la bolla come una promessa mancata o le dà del fallito?

Dopo un avvio così, è normale trovare chi ti dà del coglione, davvero. Avrei potuto fare di più, ma mi sono fatto sempre male nei momenti importanti: ho subìto due operazioni alla caviglia e una alla schiena. Del giudizio degli altri non mi importa nulla”.

Il rimpianto più grande?

Non aver lavorato a Manchester come ho lavorato negli ultimi anni. Avrei avuto una storia diversa”.

Il sogno che l'accompagna ancora?

Chiudere la carriera nella Lazio, la mia squadra del cuore. Sarebbe la chiusura di un cerchio”.