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Lazio, Eriksson: “Dal mio arrivo alle lacrime all’Olimpico: vi racconto tutto”

Edoardo Benedetti Redattore 
Sven-Goran Eriksson si racconta a 360 gradi, rivivendo tutta la sua carriera da allenatore della Lazio, fino al giro di campo all'Olimpico

Un nome che è sinonimo di leggenda per i cuori biancocelesti, scossi dalla notizia della sua malattia. In un lungo speciale ai microfoni dei canali ufficiali del club Sven-Göran Eriksson racconta tutto della sua Lazio vincente, con un grazie particolare ai tifosi per la straordinaria accoglienza lo scorso 26 maggio allo Stadio Olimpico.

“L’Olimpico? Sono andato lì la prima volta nel 1983-84, Roma-Benfica, quarto di finale di Coppa Uefa. E mi dicevo che in questo stadio e in questa città ci sarei voluto stare in futuro. Ho avuto la fortuna di allenare le due squadre di questa bellissima città ma è chiaro che la Lazio era incredibile. Tre anni e mezzo, era tutto un sogno anche per me. Mi chiamavano ‘perdente di successo’? Non lo sapevo, è bello. Penso che mi chiamassero così perché abbiamo molte volte giocato un gran bel calcio senza fare l’ultimo step per vincere un titolo. 

Avevo firmato per un’altra società in Inghilterra, il giorno dopo mi chiama Cragnotti e mi dice: ‘Vieni’. E io ho detto che avevo firmato per un’altra società ma lui ha fatto di tutto per non onorare il contratto e alla fine si è risolto tutto. Sapevo che la Lazio era forte, la sua società anche, così come sapevo che poteva comprare qualche nuovo giocatore. 

Se Falcao nell’84 mi consigliò Mancini? Sì, è vero al 100%. Mi ha detto il primo giorno di comprare Mancini, che era giovane e giocava nella Sampdoria. Io fino a quel momento non l’avevo mai visto giocare. Mancini era speciale, un grande giocatore, un fantasista elegante. Ma era anche un allenatore in campo, si arrabbiava con l’arbitro e i compagni se non facevano il lavoro che dovevano.

Quando ho firmato per la Sampdoria c’erano Mancini e Vialli. Prima di iniziare a lavorare a Genova, Mantovani mi ha chiamato dicendomi: ‘Eriksson, se non vuole venire non c’è bisogno perché io devo vendere Vialli alla Juve per fare cassa’. Così la Samp non poteva più competere con Milan e Juve. Sono andato lo stesso e abbiamo vinto una coppa, abbiamo giocato un gran bel calcio. Abbiamo avuto tanti giocatori. 

Quando è arrivata la possibilità della Lazio la prima cosa che dico a Mancini è ‘andiamo, vieni con me’. E lui voleva un’altra sfida prima di essere troppo vecchio. Forse era la prima volta in Italia che avevo una squadra che poteva competere da subito per lo Scudetto. E questo è bellissimo. Cragnotti non mi chiedeva di vincere lo Scudetto il primo anno. Ma io gli dicevo che se avessimo comprato Mancini, Mihajlovic e Veron avremmo vinto il titolo. Gli ho fatto questa promessa e quando abbiamo vinto lo Scudetto che se avesse comprato il primo anno questi tre giocatori di Scudetti ne avremmo vinti tre. Il Presidente mi dice: ‘Sven, uno è sufficiente’. 

Sono arrivato alla Lazio che aveva tanti grandi giocatori, era un piacere allenarli. Ma secondo me mancava qualcosa, mancava la grinta per vincere e fare uno spogliatoio con più positività. C’erano giocatori da tanto tempo e dicevano che era sempre così, fino a Natale andiamo bene e dopo niente. Non si può pensare e parlare così. 

Sono andato da Cragnotti dicendogli: ‘Siamo negativi, vogliamo gente che alza la positività’. L’ultimo giocatore che abbiamo comprato era Lombardo ed era un’idea di Mancini, me lo dice lui. Lombardo faceva panchina alla Sampdoria, Mancini mi rispose: ‘Non lo compriamo per il campo ma per lo spogliatoio. Sorride sempre, non è mai negativo’. Lo abbiamo preso per quello. Abbiamo comprato Vieri dall’Atletico Madrid per una somma enorme, credo fosse il calciatore più caro del mondo. Un anno dopo lo abbiamo venduto a più soldi all’Inter. La squadra cominciava ad essere forte. C’era Conceiçao, il secondo anno è venuto Mihajlovic che era particolare. 

Lo Scudetto lo abbiamo perso a Firenze, con un pareggio per 1-1 che era una grande delusione. Vincere è bello, è facile comportarsi dopo una vittoria. Ma pubblicamente, come allenatore, devi mantenere la calma. Se cominci a urlare, a piangere non serve a niente. La squadra all’inizio non aveva una mentalità vincente. Abbiamo vinto la prima Coppa Italia, una settimana dopo avevamo la finale di Coppa Uefa contro l’Inter.

Ma era una settimana di festa e siamo scesi senza la testa giusta contro i nerazzurri. Abbiamo giocato contro l’Inter di Lippi una partita di Coppa. Conosco Lippi, siamo amici. Lui mi ha detto: ‘Sven, lasciami vincere che tu hai vinto tutto’. Noi avevamo fatto una partita importantissima una settimana prima però da quel momento la Lazio era diventata una squadra vincente. Non ho detto loro cose speciali ma loro nella partita volevano vincere e basta.  Mi ricordo tante cose, specialmente Simeone. Lui si metteva in spogliatoio concentrato, se qualcuno tentava di parlare con lui prima della partita non rispondeva. Stava fermo, impassibile per 45 minuti. 

Mihajlovic? Quando sono arrivato alla Sampdoria era un attaccante a sinistra. Ma io non lo vedevo rapido nel dribblare, lo mettevo in difesa a sinistra e a lui non piaceva. Aveva un piede sinistro incredibile, gli disse: ‘Sei un difensore centrale’. Lui non voleva. In una partita avevamo un infortunato e un espulso e l’ho messo centrale. E da lì non si è più mosso. Veniva a darmi un abbraccio dopo tutti i gol segnati e questo perché la società gli ha alzato il salario da 10 a 100 perché stava diventando uno dei migliori centrali al mondo. Diceva agli attaccanti di correre e la palla arrivava.

È difficile per qualunque squadra vincere sette titoli in tre anni. Non l’avevo mai fatto prima, non ci sono riuscito neanche dopo perché quella squadra era così forte. Tutti erano campioni, giocavano in Nazionale. E nessuno voleva fare casino o imporsi come il più forte tra tutti. Io non ho fatto patti con loro ma era come se lo fosse. Accettavano di stare in panchina, accettavano di essere sostituiti, accettavano gli allenamenti. Avevo un dialogo con tutti per capire cosa fare meglio e molti volevano discutere. Ma lavoravamo tutti insieme e nella stessa direzione. Lo spogliatoio era meraviglioso, qualche volta succedeva qualcosa ma quasi mai. 

Allenare l’Inghilterra? Tante volte ci ho ripensato, forse ho fatto male. Per noi svedesi il calcio inglese è sempre in televisione. Uno svedese a cui piace il calcio sa più cose del calcio inglese rispetto a quello svedese e io sono cresciuto con la Premier League. E quando arriva un’offerta come quella della Nazionale inglese era difficile rifiutare. 

Se potessi rigiocare una partita? A Valencia era molto molto strano, pensavo che sarebbe stata una partita difficile. Ma straperdiamo, non so cosa successe. Era tutto molto strano perché avevamo uno squadrone ma quando il Valencia cominciava a giocare non c’eravamo proprio. Però, forse, ti dico quella contro la Fiorentina nel ‘99. Sarebbe stato bello vincere due scudetti.

Un’emozione da rivivere? Senza dubbio la prima Coppa Italia. La mia Lazio è nata lì, perché la società necessitava di cominciare a vincere qualcosa. Lì abbiamo provato una gioia incredibile tutti, per questo che nella partita dopo contro l’Inter non c’eravamo.

I 4 derby vinti? Abbiamo fatto benissimo in quelle partite però penso che Zeman abbia fatto malissimo. Perché in fase offensiva facevano sempre gli stessi movimenti con l’attaccante e i terzini. Io dicevo ai miei di non muoversi, era sempre così. Zeman lo conosco, è un grande uomo e grande allenatore ma non cambiava mai nulla, sempre la stessa cosa. 

Il giro di campo all’Olimpico? Troppo bello, i tifosi dappertutto che cantavano il mio nome. Ho pianto, era troppo bello. La Lazio ha organizzato una cosa fantastica. Con Gianni Elsner? Sono stato invitato una volta e la Lazio ha vinto. Così anche una seconda volta. Allora mi disse di fare un patto: se noi continuavamo a vincere sarei dovuto andare sempre in radio da lui. Penso ne abbiamo vinte 6-7 di fila e sono sempre andato. Alla fine non sapevamo più di cosa parlare, mi chiede di preparare qualche canzone perché potevamo fare altre cose oltre a parlare della partita. Io non so cantare, ho chiamato mia madre perché non mi ricordavo una canzone di quando avevo 10 anni. Alla fine ho cantato, male, molto male.

A tutti i tifosi Laziali, un grande abbraccio e grazie per quello che avete fatto per me. In bocca al lupo per il futuro e per il prossimo campionato. Una top 11 di fedelissimi? In porta scelgo Bento. Favalli a sinistra e Nela a destra. I centrali? Nesta e Mihajlovic. A centrocampo Veron, Mancini, Gullit e Nedved. In attacco Nilsson e Baggio. Difficile battere questa squadra, anche se molto offensiva”.